“So perché si è comportato in quel modo!” È una frase che abbiamo detto o che abbiamo ascoltato molte volte. Viene pronunciata di solito con un tono così deciso che neanche se l’azione fosse stata compiuta in prima persona si potrebbe mostrare tale sicurezza.
Eppure lo facciamo, pensiamo di conoscere le motivazioni che guidano i comportamenti dell’altro, quando ci interroghiamo sui suoi vissuti.
Sarebbe bello sapere cosa muove nel profondo un comportamento osservato, a partire talvolta proprio dai nostri. Forse se non proprio bello, visto che ciò potrebbe svelarci qualcosa che non vogliamo sapere dell’altro, sarebbe comunque comodo.
Potremmo muoverci nel mondo delle relazioni in modo più sicuro, avendo la certezza delle motivazioni che guidano l’altro nelle sue azioni. Potremmo quindi affidarci serenamente alle persone che si comportano autenticamente in maniera affettuosa verso di noi, rifuggire dai falsi atteggiamenti amichevoli ed evitare incomprensioni e fraintendimenti dovuti ad azioni dell’altro legate alla sua storia pregressa e non all’interazione attuale con noi.
Ma la mente umana è per sua natura opaca. Possiamo nascondere, dissimulare, amplificare, addirittura fare l’opposto di ciò che sentiamo, pensiamo o crediamo. La mente dell’altro è impenetrabile, non potremmo mai essere certi di cosa si muove dentro di lui, a meno che non sia proprio egli stesso a renderci partecipi, in modo autentico e consapevole, del suo vissuto.
Allo stesso tempo però noi abbiamo bisogno di orientarci nelle relazioni e quindi facciamo inferenze sui “dati” che abbiamo a disposizione. Facciamo ipotesi anche su di noi, sulle nostre motivazioni, potremmo trovarci a chiederci del perché ci siamo comportati in un certo modo.
Rappresentarsi l’altro, immaginare cosa ci sia dietro una frase detta in un certo modo, è importante per una buona relazione perché attribuiamo e riconosciamo all’altro pensieri, emozioni, credenze, desideri proprio come li riconosciamo in noi.
Se queste ipotesi però diventano la realtà di fatto, sono rigide e inflessibili, sono l’unica spiegazione possibile o non ci sono affatto, allora non saremo in contatto con l’altro ma con un qualcosa costruito ad hoc dalla nostra rappresentazione dell’altro, e di conseguenza non saremo in una relazione.
Impariamo nelle nostre relazioni primarie, quelle di attaccamento, che noi abbiamo una mente, intesa come insieme di emozioni, pensieri, credenze. Impariamo, inoltre, che anche l’altro ha una sua mente con i propri stati mentali. La competenza che ci consente di interpretare gli stati mentali intenzionali propri ed altrui è definita da Anthony Bateman e Peter Fonagy con il termine “mentalization”(mentalizzazione)[1].
La mentalizzazione descrive appunto la capacità implicita di rappresentare i nostri ed altrui stati mentali che sottendono i comportamenti intenzionali in modo flessibile, in una posizione di non conoscenza e di curiosità.
Ma cosa accade quando non siamo in grado di mentalizzare in maniera efficace a causa di una situazione di forte stress o perché nella nostra storia personale non abbiamo avuto modo di sviluppare questa competenza?
Non saremmo in grado di esserci nella relazione con l’altro.
Saremmo presi nel comprendere cosa accade dentro di noi oppure troppo concentrati sullo sguardo o sui movimenti di chi abbiamo di fronte. Potremmo rispondere in maniera automatica o passando al setaccio ogni singola parola prima di darle il permesso di lasciare le nostre labbra. Ancora potremmo essere troppo orientati a soddisfare i nostri bisogni o dimenticarcene completamente per cercare di realizzare quelli degli altri. O infine cavalcare l’onda emotiva lasciandoci trascinare a largo o rimanere a riva pensando che non sono passate 3 ore dall’ultimo pasto.
Esistono inoltre forme pre-mentalizzanti, ovvero modalità tipiche dei bambini piccoli prima dello sviluppo della mentalizzazione, in cui si può ricadere proprio quando la mentalizzazione stessa fallisce.
Insomma faremmo tutto ciò che ci allontana dall’incontrare l’altro e di conseguenza dalla relazione.
Rappresentarci per quello che siamo in quel momento preciso, ossia accogliere le nostre emozioni, pensieri, credenze mantenendo un equilibrio fra i vari aspetti della mentalizzazione, e rappresentarsi l’altro con i suoi pensieri, emozioni e credenze ci rende reciprocamente significativi.
E farlo mantenendo una posizione in cui sappiamo di non essere i detentori della conoscenza assoluta ed autenticamente incuriositi da ciò che può accadere, ci apre all’incontro verso l’altro.
Non è sapere con certezza la motivazione che sta dietro ad un comportamento che ci garantisce la “vittoria”. Se per vittoria si intende stare in una buona relazione, che ci arricchisce e ci fa sentire il piacere dell’esserci per noi e per l’altro, non possiamo prescindere da una buona mentalizzazione, sia verso noi stessi che verso l’altro. Rappresentare noi stessi e l’altro ci aiuta ad avere un senso di interezza e continuità e di presenza pur mantenendo una posizione di curiosità e non conoscenza di ciò che potrà nascere da quell’incontro.
Nessuno può leggere il cuore dell’Altro ma tutti possiamo lasciarci affascinare quando incontriamo qualcuno che ci svela autenticamente il suo.
La prossima volta che saremo di fronte a qualcuno ci lasceremo incuriosire?
[1] Anthony Bateman e Peter Fonagy – Mentalizzazione e disturbi di personalità. Una guida pratica al trattamento. Raffaello Cortina Editore. Ed. 2019